Da quando sono freelance mi ritrovo spesso a fare i paragoni tra le mie esperienze come cliente e il mio lavoro come consulente freelance, anche nelle situazioni di vita quotidiana.
Considerazioni ispirate da una lavanderia a gettone
Recentemente ho portato la biancheria in una lavanderia automatica a gettone. Automatica solo di nome: infatti tutte le operazioni di accesso alle lavatrici e asciugatrici erano gestite dalla proprietaria, che probabilmente pensa che questa modalità sia troppo “esotica” per l’italiano medio.
Per tutto il tempo in cui sono rimasta ad attendere il mio bucato pronto, la signora attaccava bottone con i clienti per ribadire che lei ha sempre lavorato come sarta per un atelier di lusso dove cuciva per i vip torinesi, e invece adesso a causa della crisi si è ridotta a gestire la lavanderia. È evidente che per lei questo lavoro sia degradante, probabilmente una scelta obbligata e vissuta senza partecipazione né ambizione.
Non ho potuto fare a meno di pensare che se davvero essere una sarta è così importante per lei (ed è comprensibile considerando il tempo che avrà speso per imparare i segreti artigianali del mestiere) dovrebbe cercare di continuare a fare il suo lavoro, magari aprendo una sua piccola bottega.
Il fatto che gestisca la lavanderia con quell’atteggiamento dà subito ai clienti un’immagine negativa del servizio che offre, la fa apparire come un’attività denigrante, senza valore. Se aggiungiamo che, una volta a casa, mi sono accorta che mi aveva estorto 5 euro in più, facendomi inserire più monete nell’asciugatrice di quando dichiarato sul cartello perché “altrimenti non funzionava”, concludo che è una persona da cui non tornerò perché fa un lavoro che non ama e cerca di farci la cresta.
La volta successiva ho scelto una lavanderia tradizionale, gestita da una signora con un forte accento slavo. Quando sono tornata a ritirare i cappotti mi ha accolto con un “Buongiorno signora Vullo, i suoi cappotti sono pronti” e, senza bisogno di consultare il numero attribuito ai cappotti nella ricevuta che le porgevo, in un attimo trovava i capi nella selva di abiti stirati e appesi.
Mi spiegava poi che aveva usato un lavaggio particolare per un giaccone perché aveva letto nell’etichetta che la fodera ha una composizione di fibre che rischiava di rovinarsi, e nel frattempo mi raccontava che non avrebbe chiuso la settimana di Ferragosto per portarsi avanti con alcuni lavori che richiedevano tempo e attenzione. La passione e l’orgoglio per il suo lavoro erano evidenti, e trasmettevano chiaramente il messaggio “questa lavanderia è il mio mondo, voglio che le persone vadano via soddisfatte e ritornino”.
Che tipo di consulente freelance vogliamo essere?
Alcuni sostengono che noi freelance siamo dei pesci troppo piccoli nell’oceano della comunicazione, popolato di squali, piranha e polpi giganti.
Se io mi mettessi in competizione con le grandi agenzie di comunicazione, che hanno una struttura ben diversa dalla mia, farei trapelare il mio senso di frustrazione, di inadeguatezza. Se sognassi di lavorare solo con grandi aziende multinazionali e brand di moda famosi probabilmente mi approccerei ai clienti più piccoli con insoddisfazione, con sufficienza.
Ho scelto questa professione perché la amo e cerco di svolgerla con serietà e partecipazione. Chiunque si rivolge a me, magari solo per un dubbio o per un testo di valore minimo, deve sentirsi considerato e trattato con professionalità. Ho lavorato in varie agenzie e posso dire che non è sempre scontato trovare l’abbinamento professionalità-sorriso-passione.